Omaggio a Umberto Eco

“La rosa primigenia [ora] esiste [solo] nel nome,

[soltanto] nudi nomi possediamo”

«Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione.

Il Signore mi conceda la grazia di essere testimone trasparente degli accadimenti che ebbero luogo all’abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome, al finire dell’anno del Signore 1327 in cui l’imperatore Ludovico scese in Italia per ricostituire la dignità del sacro romano impero, giusta i disegni dell’Altissimo e a confusione dell’infame usurpatore simoniaco ed eresiarca che in Avignone recò vergogna al nome santo dell’apostolo (dico l’anima peccatrice di Giacomo di Cahors, che gli empi onorano come Giovanni XXII)».

Quando lessi questi due capoversi del Prologo de “Il Nome della Rosa”, rimasi paralizzato.
Umberto Eco romanziere? Il medievalista, il filosofo, il massmediologo, il semiologo, si dà alla narrativa? Scrive un romanzo?
E che romanzo! Un noir storico, scritto da dio, pieno di citazioni dotte, una prosa affascinante; ma un noir. Non un “saggio”.
Letto una volta, letto la seconda, non trovai altro termine: un Miracolo!

Era il 1980 e vivevo a Pisa ormai da cinque anni e da uno avevo terminato i miei studi universitari; ma forte era ancora il legame con Alessandria e in Alessandria Umberto Eco era, ancora e sempre, di casa.
Fino a quel momento, Eco era stato un riferimento culturale di prima grandezza per i giovani e gli intellettuali di sinistra; per tutti, ma per noi liceali alessandrini negli anni dell’adolescenza, in particolare. Come semiologo (parola di cui non comprendevamo fino in fondo il significato, ma che capivamo facesse “alta cultura”), critico letterario e saggista, i cui interessi spaziavano un amplissimo spettro di argomenti, dalla filosofia medievale all’analisi dei mass media, da Tommaso d’Aquino ai fondamenti del fascismo.
Insomma un maître à penser che i “giovani rivoluzionari” degli anni ’60 e ’70 criticavano aspramente, ma sentivano come uno di loro.
Profondo conoscitore dei classici ma promotore di avanguardie, portatore di vasta cultura e di valori fondamentali ma attento all’evoluzione di costumi e di interessi sociali. Un intellettuale irrequieto, irriverente e aperto al nuovo: e di “nuovo” in quegli anni ce n’è stato tanto davvero.
Un punto di riferimento per tutti i giovani pensanti di allora.

Per tutti i giovani, ma per quelli dei licei alessandrini un po’ di più che per gli altri.

Eco era davvero uno di noi, uno che aveva studiato al “Plana” – quel Classico che noi dello Scientifico “Galilei” battevamo regolarmente in tutto -, uno da leggere sempre e con attenzione, da cercare di capire: e, in fondo all’animo puro e duro da adolescenti marxisti, uno che ti vinceva la scorza distaccata, uno di cui andare orgogliosi.

Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa:

stat rosa prístina nomine, nomina nuda tenemus.

Umberto Eco, “Il Nome della Rosa”, Bompiani 1980